Autonomia differenziata e Lep, Livelli essenziali delle prestazioni

Il mito dell’autonomia e i “livelli essenziali” dei diritti negati

Il tema dell’autonomia differenziata si fonda sul trasferimento della competenza legislativa in determinate materie e la conseguente possibilità di gestire, autonomamente, la correlata destinazione del residuo fiscale, cioè della differenza tra spesa pubblica ed entrate fiscali generate nel territorio di ciascuna regione.
Il tema è indissolubilmente collegato alla definizione dei Lep, livelli essenziali delle prestazioni, riconosciuti come diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai cittadini.
Oltre ai Lep, per definire specifici diritti vengono utilizzati gli acronimi Lea, livelli essenziali di assistenza (per il servizio sanitario nazionale), e Leps, per le prestazioni in ambito sociale.

La forte contrapposizione politica sulla legge voluta dal ministro per gli Affari regionali della Lega, Roberto Calderoli, da poco entrata in vigore, origina dai possibili rischi di aumento di divari già profondi esistenti tra territori e di disparità nell’esercizio di diritti fondamentali dei cittadini. Nei fatti, la legge dispone una dinamica molto complessa la cui applicazione presenta forti elementi di contraddizione e non risolve possibili scenari preoccupanti per i conti pubblici.

Lo scopo della legge n. 86 del 26 giugno 2024  per l'attuazione dell'autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario è dare un quadro unitario per l’attuazione dell’art. 116 della Costituzione, secondo il testo in vigore dopo la riforma del titolo V disposta durante il governo Amato con la legge 3 del 2001, stabilendo le modalità di trasferimento di funzioni e risorse alle regioni a statuto ordinario - ma anche a quelle già a statuto speciale - che ne facciano richiesta.
La nuova legge stabilisce che il trasferimento di competenze sia subordinato alla definizione dei Lep, livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti equamente su tutto il territorio nazionale ai sensi dell'articolo 117 della Carta.
La “legge Calderoli” prevede l’invarianza finanziaria: dalla sua applicazione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Allo stesso tempo deve essere garantito il pieno rispetto del finanziamento delle iniziative attuative dell’art. 119 della Costituzione sul trasferimento di risorse aggiuntive alle altre Regioni, per rimuovere gli squilibri economici e sociali e gli svantaggi dell’insularità nonché agire la perequazione dei territori con minore capacità fiscale.

Le materie che possono essere trasferite alle Regioni sono le 23 stabilite dall’art. 116 della Carta, cioè tutte le venti del terzo comma, definite “a legislazione concorrente”, e tre materie su cui lo Stato ha legislazione esclusiva, che riguardano le norme generali sull'istruzione, la tutela dell'ambiente e dei beni culturali, nonché l’ordinamento della giustizia, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace.

 Michele Cappadona

«Come siciliano e presidente regionale di una centrale cooperativa, non posso non sentirmi profondamente coinvolto dalle conseguenze derivanti dall’applicazione della legge Calderoli sull’autonomia differenziata», dichiara Michele Cappadona, presidente dell’Associazione Generale delle Cooperative-AGCI Sicilia. «Il provvedimento riguarda, infatti, da un lato le risorse (non solo per lo sviluppo futuro ma per la stessa sopravvivenza economica e sociale del Mezzogiorno); dall’altro il principio di solidarietà - garantito dalla Costituzione a tutti i cittadini di ogni territorio d’Italia, quindi anche della Sicilia - che è pilastro fondamentale del movimento cooperativo.
Nel mio dna di siciliano - continua Michele Cappadona - sono impressi i principi dell’Autonomia (differenziata ante litteram) garantiti dallo Statuto speciale della mia Regione, purtroppo largamente inattuato per la cronica colpevole inerzia della classe politica che dal 1948 ha governato la Sicilia e che all’insegna della desistenza ne ha rappresentato i cittadini a Roma in Parlamento. Sono consapevole quindi della motivazioni storiche, economiche e sociali che hanno reso e rendono necessarie competenze autonome differenziate coerenti con la rimozione delle disparità tra territori, e quando invece i concetti sottesi all’autonomia, indirizzata verso il federalismo, rivelano contrasti inconciliabili tra forme differenziate e quelle simmetriche, alla luce del principio di solidarietà su cui si fonda l’unità nazionale.

Decentramento, autonomia simmetrica piuttosto che differenziata

È evidente - spiega Michele Cappadona - che qualsiasi processo di decentramento in astratto può essere valutato positivamente in quanto avvicina le decisioni ai cittadini. Tuttavia l’autonomia differenziata stabilita dalla legge Calderoli - a differenza di quella simmetrica - comporta una duplicazione di funzioni e costi fra Stato e regioni, nonché ingiusti oneri burocratici a cittadini e imprese. È il rischio del cosiddetto “Stato arlecchino”, in cui tutte le regioni possono avere funzioni diverse dalle altre. Un caos istituzionale che contraddice l’art. 1 della stessa legge Calderoli, che in teoria dichiara l’obiettivo di “favorire la semplificazione e l'accelerazione delle procedure”. Un contesto di maggiore differenziazione e competenze difformi comporta più burocrazia per imprese e cittadini. Norme diverse fra diverse regioni, anche se limitrofe, causano solo confusione normativa e inefficienza.

Voglio ricordare la posizione espressa da AGCI Sicilia nel caso, assai diverso, della Zes unica, dove la centralizzazione appare una contraddizione in termini. Le Zes, per definizione dovrebbero seguire un “modello specialistico” bottom-up, che valorizzi specialità e vocazioni dei singoli territori, sviluppandone le filiere tipiche. La loro istituzione si basa sulla logica che le aree che attraggono investimenti in Italia sono in naturale concorrenza tra di loro e per il loro sviluppo è fisiologico semmai puntare su decentramento e devoluzione.

Riprendendo pareri già espressi anche dal Luca Bianchi, direttore Svimez – continua Michele Cappadona - l’autonomia deve essere attuata realisticamente in forma moderna e simmetrica. Se richiamando un esempio concreto, il Veneto propone che l’intero personale scolastico venga assorbito nei ranghi di quello regionale, si avranno quindi anche forti differenze sullo stipendio dei docenti e ripercussioni sull’applicazione del contratto collettivo di categoria. L’aspettativa sarebbe un'esasperata mobilità verso le regioni dove si guadagna di più. Il modello di istruzione proposto dal Veneto lede l’unità dell’Italia, che non può che basarsi sull’uniformità del modello di istruzione nazionale.
Inoltre, come fatto rilevare dall’Osservatorio dei conti pubblici italiani, se alcune regioni ottengono l’autonomia su una certa materia (per esempio l’istruzione), dovranno dotarsi di tutto l’apparato amministrativo necessario per il suo funzionamento. Tuttavia, l’apparato amministrativo centrale non potrà essere smantellato perché dovrà continuare a garantire la funzionalità di quella materia in tutte le altre regioni. Il risultato è perciò una duplicazione certa dei costi.

 Tabella Residuo fiscale

La legge Calderoli sull’AD – sottolinea Michele Cappadona - è stata approvata con il vincolo dell’invarianza finanziaria, rimandando a singoli accordi Stato-regione come mantenere nel proprio territorio una parte maggiore del cosiddetto residuo fiscale, la differenza tra il gettito e le spese pubbliche locali. È aritmeticamente impossibile che ciò possa avvenire senza un aumento del deficit dello Stato o un taglio delle risorse destinate al Mezzogiorno.

Invarianza finanziaria? Impossibile applicando la legge Calderoli

È generalmente riconosciuto che occorre aumentare le risorse ordinarie destinate al Sud per contribuire a colmare il divario, in coerenza con i principi europei e secondo la prevista destinazione dei fondi di coesione aggiuntivi. L’Osservatorio dei Conti Pubblici fornisce un esempio su quanto sia irrealistico l’obiettivo di alcune regioni di trattenere parzialmente il proprio residuo fiscale: posto che il Pil del Mezzogiorno è il 22,5% di quello nazionale, si supponga che le regioni del Centro-Nord vogliano trattenere sui propri territori risorse aggiuntive pari soltanto a un 2% del proprio Pil. Se questo aumento si scaricasse sul deficit dell’Italia, questo aumenterebbe dell’1,5% ogni anno (2% × 77,5%), un valore chiaramente non sostenibile. Se invece l’onere fosse addossato alle regioni del Mezzogiorno, le risorse a esse destinate si dovrebbero ridurre di quasi il 7% del Pil del Mezzogiorno. Si tratta di un numero enorme, a maggior ragione per il fatto che non sarebbe una tantum, ma avrebbe, nelle intenzioni, carattere permanente.

Gli accordi Stato-regione previsti dalla legge Calderoli - commenta Michele Cappadona - comportano aggiornamenti annuali, pertanto quando una Regione ha risorse in eccesso rispetto al proprio fabbisogno concordato il governo non può destinare liberamente tali risorse nel bilancio pubblico o ridistribuirle tra le altre regioni. La decisione è affidata ad una commissione paritetica e la Regione potrebbe quindi non dare il proprio consenso. L’articolo 8 della legge 86/2024 sull’AD, infatti, prevede che una commissione bilaterale paritetica fra lo Stato e la regione interessata provveda annualmente “alla ricognizione dell’allineamento fra i fabbisogni già definiti e l’andamento del gettito dei tributi compartecipati”. Qualora questa ricognizione rilevi uno “scostamento”, ossia un eccesso o una carenza di risorse, verranno apportate “le necessarie variazioni delle aliquote di compartecipazione” precedentemente definite.

 fabbisogni Lep

Sembrerebbe che il testo stabilisca come modificare all’occorrenza la distribuzione della capacità di spesa fra le regioni in modo sia quella rispondente ai fabbisogni necessari a soddisfare i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Ma il riallineamento delle risorse può avvenire solo su proposta di una Commissione paritetica fra lo Stato e la regione interessata, difficilmente propensa a concordare una soluzione che le sottrae risorse.

Delle 23 materie individuate dall’art. 116 della Carta, 9 sono trasferibili senza previa determinazione dei Lep e i governatori di Veneto e Lombardia hanno già dichiarato di volere già chiedere per esse la devoluzione. Nello specifico le competenze riguardano: rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero; professioni; protezione civile; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; organizzazione della giustizia di pace.

Anche sui Lep vi è un’evidente forzatura che può preludere a maggiori costi per la finanza pubblica – osserva Michele Cappadona -. Infatti, i Lep relativi alle 14 materie che all’art. 3 devono essere definiti entro 24 mesi dall’entrata in vigore della legge riguardano solo una parte delle materie trasferibili alle regioni in base all’art. 117. Ci si chiede come esso sia coerente con il fatto che, in base alla Costituzione, devono essere definiti tutti i Lep relativi ai diritti civili e sociali da garantire sull’intero territorio nazionale. Stabilendo prima i Lep sulle materie trasferibili e poi gli altri, non è chiaro come si possa tenere conto delle compatibilità finanziarie. È assolutamente possibile che il finanziamento dei Lep sulle materie trasferibili sia eccessivo in relazione alle compatibilità finanziarie complessive e che dunque non restino risorse sufficienti per finanziare i Lep nelle materie che rimangono di esclusiva competenza dello Stato. La formulazione del bilancio pubblico non può che essere un esercizio unitario, che deve tenere conto contemporaneamente di tutte le materie.

sabino cassese Va tenuto conto che secondo l’Istat le unità istituzionali del nostro Paese sono circa 23mila, tra cui gli 8mila comuni, le Regioni e tutti gli altri enti che sono dotati di autonomia. In uno Stato che si presenta come un così grande arcipelago c’è un enorme pericolo di asimmetria prestazionale.
In questo contesto si muove con difficoltà l’esigenza di determinare i Lep – continua Michele Cappadona -. Lo scorso ottobre il Comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Clep), presieduto dal costituzionalista Sabino Cassese, ha presentato la sua relazione finale. Il Clep è stato prorogato fino al 31 dicembre 2024 a supporto della “Cabina di regia per i Lep” presieduta dal premier Giorgia Meloni, in vista della necessità di emanare i Dpcm per l’individuazione dei Lep e dei relativi costi e fabbisogni standard. Finora sono stati individuati circa 250 livelli essenziali delle prestazioni in 13 materie, a cui aggiungere 46 Lea (Livelli essenziali di assistenza riferiti all’area della salute). I Lea svolgono nel loro campo specifico la funzione dei Lep. Per quanto riguarda la previsione della spesa, ha chiarito Cassese, i Lep si distinguono in quantificabili e non quantificabili. Per i primi è possibile calcolare il fabbisogno standard e dunque il costo per la loro erogazione in ciascun territorio. I Lep non quantificabili non presentano elementi idonei a consentire una precisa determinazione del fabbisogno standard, territorio per territorio. Si pensi alle mense scolastiche o agli stipendi degli insegnanti.

Diritto ai Lep: il livello storico di spesa misura e segnala disparità esistenti, mantenerlo peggiora il gap e non tutela certo i diritti civili e sociali dei cittadini discriminati

Per i Lep quantificabili esiste un problema di misurabilità, in quanto secondo la Clep la definizione dei fabbisogni standard si è finora basata sui livelli storici di copertura dei servizi, sebbene il livello storico non sempre risulti coerente con la tutela dei diritti civili e sociali.
Secondo la relazione Clep, nel valutare spesa storica e fabbisogni standard si possono attendere diversi esiti:
1. spesa “storica” complessiva che tendenzialmente presenta solo una distribuzione territoriale incoerente rispetto alle implicite attese contenute nel Lep (ad esempio, scuola dell’obbligo);
2. spesa “storica” complessiva che “convive” con Lep già definiti, ma di cui non è mai stata verificata la compatibilità con i corrispondenti fabbisogni territoriali e di riflesso nazionali (per esempio, sanità);
3. spesa complessiva “storica” nazionale da rapportare a fabbisogni standard di Lep, da quantificare ex novo su scala territoriale e nazionale, tenendo conto degli equilibri di bilancio.
Il terzo caso presuppone che i Lep abbiano un costo aggiuntivo e quindi impattano sui conti pubblici, assumendo secondo il Clep, una dimensione finanziaria di sicura rilevanza.

Grande perplessità rimane anche – aggiunge Michele Cappadona - sulla scelta della modalità dei processi decisionali. Il problema principale è che quasi tutto l’iter che porta alla devoluzione è basato su una contrattazione bilaterale fra il governo e la singola regione interessata. Il Presidente del Consiglio dei ministri ha il potere di “limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie” (art. 2 comma 2). Le valutazioni che le commissioni parlamentari competenti possono esprimere nel corso dell’iter non sono vincolanti.
Raggiunta l’intesa fra lo Stato e singola regione, il Consiglio dei ministri sottopone la legge alle Camere che, senza potere modificare il testo, deliberano a maggioranza assoluta dei componenti come previsto dall’art. 116 della Carta.

L'autonomia diffrenziata sarà governata da un mostro giuridico-istituzionale con 22 teste

Le commissioni paritetiche bilaterali, indipendenti l’una dall’altra, che potenzialmente vengono istituite con la legge Calderoli e che sono nei fatti permanenti in quanto devono definire ogni anno la contrattazione tra Stato e singola regione sono 22: 15 per le RSO, regioni a statuto ordinario, 5 per quelle a statuto speciali, 2 per le provincie autonome di Trento e Bolzano. Un sistema di complessità enorme: ciascun singolo aumento di fabbisogno per una particolare funzione si rifletterà nelle risorse da attribuire a tutte le altre regioni, visto il vincolo di invarianza finanziaria. Un mostro giuridico-istituzionale con 22 teste.

I Lep, come afferma Sabino Cassese, rappresentano un adempimento costituzionale volto a garantire l’unità sociale, politica e civile del Paese. Le disparità tra le regioni italiane esistono già e non sono imputabili alla legge Calderoli, che però ha innegabilmente l’effetto di aggravare le diseguaglianze, negando fondamentali doveri solidali - conclude Michele Cappadona -. Sono conseguenze che non possiamo che respingere, alla luce degli ideali per cui da sempre combattiamo. Cooperazione è identità plurale, una comunità unita attraverso la solidarietà».